Anche la generazione nata negli anni `40, e che ora fa capolino in quell’indefinibile galassia della terza età (ma qui nessuno, oggi come oggi, vuole rinunciare allo status di giovane ad oltranza…), ha vago ricordo delle veglie intorno al fuoco. Tutt’al più ha incorniciato nella propria memoria qualche serata passata dai nonni in campagna, attorno al camino, in contemplazione di quelle poderose fiamme che si sprigionavano, scoppiettando, dalla legna raccolta nel bosco vicino.
Nel giro di pochissimi anni tutti, o quasi, abbandonarono la terra. Quasi in fretta. Non fu la fine di un’epoca. Si tratto, bensì, del tramonto di una civiltà. E pensare che per il possesso di quei fazzoletti di terra numerose generazioni di contadini, mezzadri e braccianti andarono al fronte o si dichiararono – impegnandosi – pronti ad imbracciare anche i fucili della rivoluzione!
E, allora, negli anni Cinquanta ci ritrovammo tutti immigrati in città, nei borghi, nelle periferie o in quelle case malandate dei centri storici. Li non c’era più il camino, non si vedevano più le
lingue di fuoco che salivano impetuose nel nero della canna fumaria… al loro posto era subentrata la stufa, la prodigiosa cucina economica, smaltata di bianco, dove la legna o il carbone bruciavano all’interno, senza sporcare, senza farsi vedere… Non era ancora arrivato il termosifone (presente solo nelle case dei benestanti), quindi la stufa doveva servire a riscaldare tutta la casa. Ma, ahimè, non ce la faceva! Per cui, d’inverno, la famiglia se ne stava tutta raccolta in cucina, a porte chiuse, attorno a quella stufa dalle mille prestazioni (scaldava l’acqua, cuoceva le pietanze e, al suo interno, aveva più di un piccolo forno). Chi non ricorda – tra coloro che ne hanno titolo, anagraficamente – le veglie assieme ai vicini di casa o ai parenti?
Eravamo agli inizi degli anni Cinquanta – anno più, anno meno – e i bambini di allora dovevano ascoltare, quasi in religioso silenzio (a quei tempi mica comandavano loro…) i lunghi racconti degli adulti. Il tema ricorrente era la guerra, quella terminata da poco. E così si scopriva che anche persone prive di studi e di povere condizioni, avevano una conoscenza del mondo incredibile: parlavano nei dettagli della vita in Albania, in Africa, in Germania… avevano visto Mussolini e il Re, nel dopoguerra erano stati protag¬onisti di animate vicende politiche; e i nomi più ricorrenti erano quelli di Togliatti, Saragat, Nenni e De Gasperi.
Mentre i fatti di cronaca portavano il nome del bandito Giuliano, del caso Montesi, della Cianciulli (la `saponifica¬trice’ di Correggio)… e poi il tedesco che si erano letteralmente mangiati a San Giovanni in Marignano (tanta era la fame durante la guerra!), la ragazza sepolta viva, involontariamente, proprio qui a Rimini, a fine Ottocento; oltre alla cronaca sportiva che esaltava fino all’inverosimile la rivalità e le imprese di Bartali e Coppi… Infine i racconti più strabilianti che facevano rimanere a bocca aperta i bambini (creando non pochi incubi nei sogni notturni): da quelli che avevano come protagonisti individui coraggiosi che la notte andavano nei cimiteri, alle case in cui “si sentiva” la presenza di entità misteriose, agli strampalati e surreali personaggi poi raccontati da Fellini e da Tonino Guerra…
Chi sapeva raccontare queste storie – evocando atmosfere suggestive, arricchendole di particolari, rendendole quasi verosimili (unendo al vero molta fantasia) – era autore di una letteratura orale e popolare non di molto inferiore a quella accademica. Tanto è vero che i più significativi autori romagnoli contemporanei si sono ampiamente ispirati, per le loro opere, a questa miniera, a questa fonte, inesauribile saga di vicende umane.
Giuliano e Mario